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SAN GIOVENALE

(Blera - Vt)

La località prende il nome dal santo Giovenale al quale fu dedicata una cappella, ancora oggi presente nel sito, ormai rudere. Vescovo di Narni, venne deposto alla fine del IV secolo nella cittadina umbra.

Aspetti naturalistici

Il sito è compreso all'interno dell'elenco dei Siti con valori d'importanza Comunitaria inseriti nella rete ecologica europea Natura 2000 indicati dalla Regione Lazio nel 1996 e ratificata con decreto del 2005 del Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio, definito come "Area di San Giovenale e Civitella Cesi", codice IT6010030. Presenta una morfologia a plateaux (pianori) di tufo dalle pareti scoscese e profondi valloni in cui è elevato il valore di biodiversità.

Aspetti geologici

Si tratta di un caratteristico "acrocoro" tufaceo, ossia un'altura isolata dall'azione erosiva di due corsi d'acqua, il torrente Vesca e il fosso Fammilume. E' inserito nell'elenco dei geositi individuati dalla Regione Lazio al numero 308 con la seguente descrizione: "Tufo rosso a scorie nere, Localizzazione Lat: 4679256,10 N; Long: 252613,38 E poiché zona archeologica situata sui depositi della colata piroclastica del “Tufo rosso a scorie nere” Auct. In quest’area è possibile osservare i rapporti di giacitura delle vulcaniti con i conglomerati messiniani".
Sul fondo delle forre affiorano appunto i calcari presenti nel territorio prima degli episodi vulcanici.

Archeologia

A San Giovenale estesi scavi stratigrafici hanno consentito di conoscere le fasi di occupazione del sito, abitato importante nell'età del Bronzo e del Ferro, ma soprattutto di conoscere le modalità insediative dell'età etrusca arcaica: sono infatti ancora oggi visibili le abitazioni del ceto medio e del ceto dominante, simili nella suddivisione degli ambienti ma differenti nelle dimensioni.
Attorno all'altura, suggestivo punto d'osservazione, sorgono numerose aree necropolari etrusche tra cui quella di Casale Vignale, dai grandi tumuli tardo orientalizzanti - arcaici.

San Giovenale

Su un'altura estesa per alcuni ettari, sono stati presenti insediamenti umani sin dall'età del Bronzo. Il sito si trovava a controllo di un tracciato viario che collegava la costa tirrenica, i Monti della Tolfa, il vicino abitato di Luni sul Mignone, i centri etruschi del territorio di Barbarano, Blera e Vetralla con la piana viterbese. Il percorso, che in età moderna prenderà il nome di “Via Dogana”, era in antico un importante asse viario lungo il quale si spostavano uomini, merci, e greggi, uno dei principali percorsi che collegava la Maremma laziale all'interno della Tuscia, e da qui a Viterbo ed alla valle del Tevere, a controllo del quale crebbero siti di controllo fortificati. Uno dei tracciati che consentiva di spostare le greggi dai pascoli estivi a quelli invernali e viceversa, in una millenaria attività pastorale definita transumante.

La transumanza è documentata dal periodo romano: diversi autori, tra cui Varrone (I secolo a.C.), narrano delle modalità con cui questa pratica antichissima si svolgeva. Le greggi e le mandrie venivano trasferite dai pascoli appenninici estivi, alle pianure laziali, toscane o pugliesi: con la caduta del sistema imperiale romano e la conseguente frammentazione politica dell'Italia antica, tale pratica conobbe un momento difficile.
Dopo la crisi alto medievale la pratica dell'allevamento transumante riprese, probabilmente attorno al XIII secolo. I movimenti delle immense greggi erano sottoposti al pagamento di dazi e gabelle di passaggio: a tale onere fiscale era preposto un ufficio governativo apposito, la “Dogana delle pecore” che controllava direttamente i percorsi più utilizzati dai pastori.
Non è un caso che uno dei principali percorsi che collegava la Maremma laziale all'interno della Tuscia, e da qui a Viterbo ed alla valle del Tevere, si chiami "Via della Dogana": essa ricalca un tracciato antico che passava per Luni sul Mignone, il Passo di Viterbo e San Giovenale, a controllo del quale crebbero siti di controllo fortificati come il castello dei Di Vico a San Giovenale o quello di Axia a Castel d'Asso.

Cibo

I dati resi disponibili dagli scavi condotti a partire dalla fine degli anni '50 dello scorso secolo dall’Istituto Archeologico Svedese di Roma a San Giovenale (Blera - Vt) abbracciano un arco cronologico molto ampio che va dall’età del Bronzo all’età romana: essi rivelano come, attraverso i secoli, il principale alimento siano stati i suini, gli ovini ed i bovini, talvolta integrati da esemplari cacciati come il cervo, il capriolo e la lepre. Se cerchiamo analogie con il mondo romano di cui si possiedono numerose notizie in più rispetto all’etrusco, apprendiamo che si tendeva al consumo soprattutto di suini, mentre i caprovini erano destinati alla produzione di latte e lana, i bovini al lavoro nei campi. La carne era arrostita su lunghi spiedi (in greco obeloi) che, in epoche premonetali, cioè quando ancora non si usavano monete e si ricorreva allo scambio di prodotti e di metalli a peso, costituivano nel Mediterraneo un elemento di scambio assai frequente. Talora la carne veniva bollita in grandi calderoni da cui veniva estratta con uncini. A San Giovenale sono stati rinvenuti fornelli e pentole di terracotta che testimoniano la quotidiana vita dell’abitato: molti dei materiali archeologici provenienti soprattutto dagli abitati arcaici della Tuscia (San Giovenale ed Acquarossa) sono esposti in un'interessantissima mostra permanente presso il Museo Archeologico Nazionale di Viterbo (Rocca Albornoz).

Per conoscere nel dettaglio alcuni aspetti dell'alimentazione etrusca si possono analizzare i dati di uno scavo di un insediamento agricolo etrusco del IV - III secolo a.C. condotto dalla Soprintendenza Archeologica per l’Etruria Meridionale a Blera in località Le Pozze (scavi 1986-87): esso ha permesso il rinvenimento di 570 semi e noccioli di frutta, tra cui corniolo, nocciolo, ghiande di quercia, olivo (Olea europaea), vite (Vitis vinifera), fico (Ficus carica), pero (Pyrus sp.) ed orzo (Hordeum sp.). Tra i resti di animali, presenti i suini, la capra, i bovini, le galline. Indagini paleonutrizionali, cioè sulle modalità alimentari del passato, condotte sulla popolazione etrusca, hanno rivelato che dal VII secolo a.C. all’età romana l’economia alimentare sia rimasta a base agricola; un consumo maggiore di carne e latticini, rilevabile dall’aumento di Zinco nelle ossa, si ha nell’età arcaica (VI secolo a.C. - inizio V secolo a.C.): con il passaggio all’età classica ed all’ellenistica si nota una graduale diminuzione del consumo di prodotti di origine animale, forse conseguenza di quella forte crisi economica che avrà il suo inizio nel V secolo a.C. e che si protrarrà con la conquista romana.

Il Medioevo

Sulla rocca tufacea svetta l'incredibile e poco noto castello della nobile famiglia dei Di Vico (metà XIII secolo), mai abitato per la perdita di potere della potente famiglia nella lunga lotta al papato. Il centro fu caposaldo strategico sul confine tra la Tuscia longobarda e il Ducato Romano. Situato su un crocevia importante, sorgeva a cavallo cioè della via Clodia, che collegava i centri interni all'Etruria costiera con andamento Nord-Sud, e la via Dogana, che collegava la costa tirrenica, i Monti della Tolfa, il vicino abitato di Luni sul Mignone, i centri medievali di Barbarano, Blera e Vetralla con la piana viterbese, e da qui con l'area tiberina.

Castello dei Conti Di Vico

La famiglia “di Vico”

Famiglia romana che dominerà la Tuscia, con vicende alterne, per quattro secoli.
L'origine della casata li vede forse discendere dai duchi longobardi di Spoleto o da Arnolfo, gastaldo di Terni. Nel Patrimonio di San Pietro hanno la loro prima sede sul Lago di Vico, ove possedevano delle proprietà.
Li troviamo nella Roma del X secolo con Pietro, capo della rivolta contro papa Giovanni XIII (965-972), che rivendicava la Prefettura di Roma per diritto ereditario. Nel 1138 Pietro I si schiera accanto a Federico Barbarossa ed all'antipapa Vittore IV contro papa Innocenzo II (1130-1143). Ottiene in cambio molti possedimenti e privilegi, confermati al figlio Giovanni I dal papa Alessandro III (1159-1181) per aver abbandonato l'imperatore.
Alla metà del XIII secolo Pietro III è signore di Civitavecchia dopo aver appoggiato papa Alessandro IV (1254-1261); questi possedimenti sono confermati da papa Clemente IV (1265-1268) al figlio Pietro IV.
Nel XIV secolo in Viterbo accadono continue lotte intestine tra i sostenitori dell'Imperatore (i Tignosi, assieme ai Prefetti di Roma, i di Vico) e quelli del Papa (i Gatti), forse spinto dallo spostamento della sede papale ad Avignone in Francia, che rende la città ormai marginale alla corte papale. Nel 1328 è Signore di Viterbo il ghibellino Silvestro de' Gatti, che viene deposto l'anno seguente dall'imperatore Lodovico IV. Al suo posto è eletto Faziolo di Vico, figlio di Manfredi di Vico, che governerà la città sino alla sua morte, avvenuta nel 1338. Gli succede Giovanni III di Vico, il più illustre e spregiudicato rappresentante della famiglia, che diviene Signore di Viterbo, Orvieto e Civitavecchia: riuscirà a governare gran parte della Tuscia nel periodo dell'esilio avignonese del papa, tentando di instaurarvi un regno indipendente. Occuperà Viterbo, Vetralla, Corneto (Tarquinia), Bagnoregio, Bolsena. La sua "tirannia", come è stata definita da alcuni storiografi filo-pontifici, durerà sino all'intervento del cardinale Albornoz. E' Innocenzo IV (1352-1362) infatti ad affermare con fermezza il potere papale sul Patrimonio di San Pietro inviandovi lo spagnolo Egidio Albornoz, uno dei "cardinali guerrieri" che non esitano a ricorrere alla spada per affermare il potere della Chiesa. Nel 1354 sconfigge Giovanni di Vico interrompendo così il suo progetto di conquista dei territori del Patrimonio di San Pietro. Governerà la città per conto del pontefice sino al 1375. Con il ritorno di Urbano V ad Avignone, Viterbo torna nuovamente sotto i di Vico; nel 1375 appunto Francesco riuscirà a farsi proclamare "Signore". Dopo la sua elezione avrebbe fatto abbattere la Rocca, simbolo del potere pontificio, ed incendiare lo Statuto comunale del 1251, emblema dei diritti dei cittadini viterbesi: erano lontani i tempi in cui "il solo respirare l'aria della città rendeva liberi". Francesco di Vico fu ucciso nel 1387 nel corso di una sollevazione popolare creata dal cardinale Tommaso Orsini: Viterbo sarebbe tornata sotto il controllo pontificio, ma solo fino al 1391, poiché Giovanni II Sciarra di Vico, nipote del tiranno Giovanni I, avrebbe assunto il titolo di "Signore di Viterbo e Civitavecchia". Nel 1395 la città ed i suoi territori passano nuovamente sotto il governo pontificio, ma presto la famiglia dei di Vico è ancora protagonista delle lotte intestine che dilaniano Viterbo e la Tuscia tutta, fino a quando un altro dei "cardinali di ferro", Giovanni Vitelleschi, fa giustiziare nel 1435 Giacomo, l'ultimo rampollo della famiglia, che si era alleato con i Colonna contro papa Eugenio IV (1431-1447). La famiglia dei di Vico si estingue; rami laterali sono attestati a Pesaro e Viterbo.

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